Conquistando il Golfo Persico

Gli industriali italiani tentano la fortuna negli Emirati Arabi, isola felice per gli imprenditori ma, forse, un mito con una vita breve

Non più soltanto in Cina e in India, gli industriali italiani ora emigrano negli Emirati e in Arabia, l’Italia è diventata troppo piccola e soprattutto troppo “onerosa” per gli imprenditori che cercano nuovi lidi per “far fortuna”, ma soprattutto per evitare che lo Stato assorba oltre il 50% degli introiti delle aziende con tasse e imposte. Di questi tempi per risollevare gli animi e non solo, gli imprenditori italiani cercano fortuna non soltanto in Cina e in India ma si spingono fino al ricco Golfo Persico. Quest’ultimi pieni di petrolio, creduto inesauribile. stanno affrontando una grave crisi economica, sopratutto città ora in via di ripresa. L’amministratore delegato della Simest Massimo D’Aiuto ci riferisce che l’imprenditoria italiana ha aiutato molto questi paesi e non solo nel settore fashion, nell’abbigliamento e disegn ma anche facendo investimenti per far entrare l’Italia nei mercati del Golfo. A oggi la Simest ha contribuito finanziando 130 aziende italiane di 1860 milioni di euro per fare affari nel GCC (Gulf Cooperation Council) ovvero negli Emirati Arabi Uniti, Qatar, Oman, Kuwait, Bahrein, Arabia Saudita. Ma gli aiuti economici non arrivano soltanto alle grandi aziende ma si espandono fino alle minori, dalle società di produzione audiovisivi a quelle nel settore delle energie rinnovabili, dal fotovoltaico all’eolico. La GCC con questa azione non vuole solamente migliorare l’economia ma anche ottenere l’integrazione e la cooperazione degli Stati Arabi nell’Unione Europea, legata da un’unica moneta così da avere un libero scambio tra Stati. Di questa unione monetaria se ne parlerà in un assemblea programmata nel Maggio del 2010 nella capitale dell’Arabia Saudita (Riyadh). L’Oman e gli Emirati sono gli unici che mancano all’appello. Un altro argomento che sta a cuore alla GCC è l’educazione e la formazione di risorse umane da inserire nel mondo del lavoro, in continua evoluzione. Infatti nel Qatar è stato creato uno Science & Technology Park; in Arabia Saudita le università da otto sono passate a venti in soli quattro anni. Ma non tutte le crisi vengono per nuocere. Ce ne danno esempio gli Emirati che nelle condizioni economiche difficili riscoprono economie arabe stabili, come il packaging alimentare e l’intensificazione di cereali e late ad Hail. L’intensificazione giunge fino ai settori delle biotecnologie, della gestione dell’acqua e dei rifiuti, piccoli possibili business per le imprese italiane. Tutto questo regolato da leggi fiscali. A parte Emitari e Bahrein il GCC ha stabilito che le società devono preparare il bilancio annuale, le dichiarazioni fiscali e in alcuni Stati anche la revisione dei conti. Infine tutti i membri del GCC hanno deciso di comune accordo di mettere un dazio sulla maggioranza dei beni materiali importati nel loro territorio del 5%. Tutti i prezzi sono netti (l’Iva è stata tolta) a eccezione del settore alberghiero e nella ristorazione. Le imposte rispetto all’Italia sono: nell’Arabia Saudita chiede il 20% per le società di trading o di servizi, il Qatar ha un’aliquota progressiva fino al 35%, l’Oman il 12 e il Kuwait il 5. Gli italiani sono un popolo molto attivo, come possiamo notare, non soltanto nel settore alimentare, logistico e in quello della gioielleria ma essendo esperti manovali anche nella manutenzione degli impianti industriali, nel trattamento dell’acqua potabile e nell’arredamento di pregio. E come disse Totò “Italiani di tutto il mondo unitevi” contro questa crisi economica.

Intervista ad un imprenditore italiano che ha investito a Dubai
Per saperne di più abbiamo chiesto l’opinione di Giuseppe De Ninno, della DITEC spa, ditta che ha investito a Dubai. De Ninno è area manager, si occupa dello sviluppo dei mercati e supporta i clienti già attivi nel settore degli automatismi per ingressi.
 

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Perché la vostra impresa ha deciso di investire a Dubai?
Dubai non è solo uno dei mercati a maggiore espansione nell’area del Golfo, ma anche un crocevia di merci verso l’Iran (verso il quale esistono pesanti restrizioni all’export, questo a causa delle sanzioni frutto della politica aggressiva di Ahkmadinejad), l’India, e tutto il Golfo Persico in generale. Solo il 50% di quello che passa per Dubai resta nel posto.
Dubai inoltre è stato oggetto di una politica di apertura verso gli investimenti provenienti dall’estero che non ha avuto eguali nell’area del Golfo. Quindi i fattori più rilevanti sono la posizione geografica e l’apertura verso l’estero.
Che opportunità offrono gli Emirati Arabi rispetto all’Italia?Possiamo dire che il mercato degli Emirati è molto piccolo rispetto a quello italiano, sia per volumi che in valore. Ne deriva che l’orientamento verso Dubai non nasce con motivazioni sostitutive, ma compensative: nell’era della globalizzazione, è naturale che le aziende si orientino verso nuovi mercati per aumentare il loro fatturato.
Quali settori sono in maggiore espansione?
I settori in maggiore espansione sono l’edilizia e tutto quello che ruota intorno al building materials, la logistica, i beni di consumo.
Quali difficoltà, e quali peculiarità, si incontrano lavorando nel Golfo Persico?
Il Golfo è formato da diverse entità statali, tutte accomunate dall’appartenenza alla fede Islamica, seguita in modo più (Arabia Saudita) o meno (Dubai) marcato. È questa la peculiarità principale. Nel Golfo ad esempio si lavora dal sabato al giovedì mattina (il loro week-end è giovedì e venerdì), la morale islamica influenza l’attività bancaria (il prestito con interesse non è legale), il commercio, le relazioni. Insomma, la “problematica” principale che l’investitore o il business man italiano si trovano ad affrontare nel Golfo risiede nell’imparare a saper governare le differenze culturali.
Secondo lei sono previsti dei cali per il futuro?
Proprio a Novembre il costruttore pubblico Nakheel, che ha reso famoso Dubai per le sue realizzazioni architettoniche da mille e una notte, ha rischiato la bancarotta. E la cosa ha fatto tremare le banche di tutto il mondo. L’economia di Dubai infatti si regge su una bolla di speculazione edilizia che rischia di esplodere come è successo nel sud est asiatico negli anni ’90. Non ci sono industrie, non esportano che petrolio, insomma, non esiste economia reale. E mentre Abu Dhabi è ricca di petrolio, Dubai no. Credo che il mito di Dubai sia destinato a finire a breve, a meno che le autorità non siano in grado di realizzare una riconversione economica che non faccia dell’edilizia e quindi dell’immobiliare il settore principale dell’economia. Altrimenti, è meglio che mi trovi un altro lavoro!

Articolo di Noemi Tafuri e Alessandro Mangoni

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