Intervista a La Quinta Armònia

Giovane band di Latina

La giovane band di Latina La Quinta Armònia sembra davvero intenzionata a far parlare di sé. La padronanza degli strumenti e l’estro creativo certamente non mancano ai cinque membri del gruppo: un bocciolo carico di potenzialità in via di maturazione. Vi proponiamo l’intervista al cantante Stefano Guidi.

Ciao Stefano, raccontaci come è nato il progetto musicale del gruppo.

Il gruppo esiste dal 2005, ma la formazione definitiva si è stabilizzata nel 2008 con me alla voce, al piano e al violino, Damiano Perucino alla chitarra, Patrizio Leandri al basso, Angelo Zanier alle tastiere e Luca Onori alla batteria. Inizialmente suonavamo cover rock, ma quando ho iniziato a portare il violino durante le sessioni di prova, la situazione è cambiata ed abbiamo intrapreso un percorso molto più strumentale che lasciava poco spazio alla struttura ben definita della canzone pop. Abbiamo cominciato a ricercare all’interno dei nostri bagagli culturali e a mettere in pratica gli ascolti che ciascuno di noi aveva fatto negli anni, cercando di trovare una forma musicale nostra, sia attraverso l’uso di determinati strumenti, sia attraverso la scelta della struttura del pezzo. In questo modo siamo arrivati al genere che ci contraddistingue oggi: un rock progressive sinfonico che utilizza la tastiera per sintetizzare le sezioni d’orchestra. Il nostro stile strumentale però non disdegna la canzone cantata, che alterniamo ai pezzi strumentali durante i live.

Quali sono le vostre influenze e ispirazioni? La vostra musica tende ad incarnare un genere?

 

Le influenze di ciascuno di noi variano molto fra loro e spaziano da Queen, Pink Floyd e musica anni ’70 alla dubstep. Io, suonando il violino, ho anche una base classica che interviene in modi sfumati nella composizione dei brani. Noi definiamo il nostro genere come progressive sinfonico, ma in realtà ogni pezzo nasce da un’idea, una frase che non si sa mai dove porterà. Ci piace spaziare all’interno dei generi, includere sfumature swing, blues o di semplice rock, quindi, darci un’etichetta precisa non ci descrive affatto. Chiudersi all’interno di un genere è una limitazione che va soltanto a restringere il campo delle proprie influenze. Quando si scrive musica e quando si sceglie di utilizzare certi termini nel testo, ci si mette dentro tutta l’esperienza e tutto il proprio bagaglio culturale, anche non musicale. Nel mercato discografico c’è, invece, un continuo ri(n)correre a certi temi e parole, perché già si sa che otterranno un determinato riscontro.  Ad esempio, le parole “amore”, “cuore”, “occhi”, sono termini che ormai, dopo l’uso abusato che se ne è fatto, al loro interno già racchiudono un bagaglio di significati codificato e banalizzato. Penso che non sia stimolante avere a che fare sempre con gli stessi canoni; parlo non soltanto da musicista, ma anche da semplice fruitore di musica.

Come pensi che sia oggi la vita di un musicista?

Oggi si sente soltanto parlare della crisi economica. È vero che c’è la crisi, però sono convinto che è proprio nei momenti di crisi che si è messi alla prova e si è costretti ad avere una marcia in più per raggiungere gli obiettivi. Io ho iniziato a suonare il violino all’età di 6 anni. Oggi ho dovuto trovare un altro lavoro per rendermi autonomo, però non ho mai smesso di suonare e continuerò a farlo. Non vedo altro stimolo nella mia vita se non quello della musica e penso che sia lo stesso per gli altri del gruppo. Grazie alle serate live siamo riusciti a comprarci strumenti più buoni, a produrci il nostro primo EP, a pagarci i materiali di scena e le spese per le selezioni di Sanremo. Noi ci mettiamo molto impegno per cercare di arrivare dove vogliamo. Il nostro interesse è di lasciare un segno, qualcosa di concreto, non di commerciale. Certo, vogliamo vendere, perché è così che un musicista vive, però è il fattore artistico che ci spinge a fare i sacrifici che facciamo.

Che cosa significa oggi sperimentare?

In Italia siamo patiti per la musica estera, soprattutto americana. Prendiamo per oro qualunque cosa, mentre non ci accorgiamo di musicisti italiani bravissimi che sono costretti suonare nei locali per pochi spiccioli. Questa è una realtà ingiusta del nostro paese, che non permette ai musicisti di sperimentare come vorrebbero. Per sperimentazione intendo l’influenza di ciò che non rispecchia i canoni odierni del mercato. La sperimentazione è qualcosa che non finisce mai. Un uso sbagliato che se ne fa, è far sembrare sperimentali sovrapposizioni di elementi moderni senza alcun criterio, solo per creare l’illusione del nuovo. Noi, da parte nostra, non facciamo mai un brano con l’intenzione precisa di produrre qualcosa di nuovo. Quello che LQA ha cercato di fare, è guardare il più possibile al di fuori di certi canoni e schemi. L’importante è l’ascolto, dopodiché, inconsciamente, il cervello fa tutto da solo. Avere delle influenze significa rielaborare, riproporre originalmente e autenticamente ciò che si è ascoltato in modi diversi. L’ascolto non deve essere mirato soltanto allo star bene immediato, ma deve essere volto alla creatività. La musica ha il potere di cambiare l’interiorità delle persone. Se ascoltata davvero, ne ricaveremmo benefici ben maggiori di semplici cambiamenti d’umore.

 

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