Viaggio nei luoghi della Battaglia di Aprilia: 19 novembre 1983, rapimento nella Tenuta Calissoni Bulgari

Nella puntata odierna del nostro reportage parleremo ancora della Tenuta Calissoni Bulgari, ricordando il rapimento della signora Anna e del figlio Giorgio avvenuto 35 anni fa

Abbiamo deciso di raccontare qui su Sfera Magazine la storia della Tenuta Calissoni Bulgari perché essa ospita, nei suoi 60 ettari, alcuni dei luoghi che furono teatro di momenti importanti della Seconda Guerra Mondiale ed edifici che hanno segnato la storia della città e dei suoi abitanti. Ma prima di affrontare questi temi, concludiamo la storia della famiglia proprietaria della Tenuta ricordando uno degli episodi più tristemente famosi che la riguardano. Parliamo ovviamente del rapimento della signora Anna Bulgari e di suo figlio Giorgio, avvenuto il 19 novembre del 1983. Il ricordo di quei 36 giorni arriva da Laura Calissoni, primogenita del Generale Franco Calissoni e della signora Anna, che si trovò a condurre le trattative con i rapitori.

                «All’epoca avevo 28 anni, e svolgevo la professione di avvocato a New York. La telefonata mi arrivò alle quattro del pomeriggio, mi precipitai in aeroporto per prendere il primo aereo utile. Purtroppo di voli diretti per l’Italia non ne sarebbero più partiti quel giorno, quindi dovetti fare scalo a Parigi. E qui un ulteriore contrattempo: all’aeroporto Charles De Gaulle c’era troppa nebbia per consentire i decolli, dunque fummo portati in bus all’aeroporto di Orly. Non arrivai qui alla Tenuta che a tarda sera del giorno successivo al rapimento. Venni a sapere che i malviventi avevano rinchiuso tutto il personale e mio padre in delle stanze, per evitare che fosse dato l’allarme. Mio padre, tuttavia, riuscì a liberarsi, si calò al di fuori della sua casa ed andò a liberare gli altri, per poi avvisare le forze dell’ordine. Dal momento del rapimento potevano essere passate circa un paio d’ore.

In un primo momento c’era indecisione su chi dovesse condurre le trattative con i rapitori. Era chiaro che l’interesse era rivolto verso la famiglia Bulgari, già coinvolta in un fatto simile nel 1975. Credevamo che il rapimento di mio zio Gianni ci avesse vaccinato a questo tipo di situazioni e che non saremmo più stati colpiti. Ma non fu così. Furono i rapitori a decidere chi della famiglia sarebbe stato il loro riferimento. Chiamarono infatti a casa mia, dettando da subito termini e condizioni precise».

Le cronache dell’epoca riportano che i rapitori chiesero 3 miliardi di lire da consegnare entro il 15 dicembre, con la minaccia di recidere un orecchio ad uno degli ostaggi in caso di mancato adempimento ed ulteriore innalzamento delle richieste: 4 miliardi entro il 24 dicembre. Scaduto il secondo ultimatum, gli ostaggi sarebbero stati uccisi.

«Ci fu assicurato – ricorda ancora la signora Laura – che difficilmente la minaccia di tagliare un orecchio sarebbe stata messa in pratica. Anche per questo la famiglia non diede l’assenso al pagamento, ma fu un errore. L’orecchio di mio fratello Giorgio fu reciso ed inviatoci, portandoci alla decisione di pagare quanto richiesto.

Di quelle telefonate ricordo la crudeltà del mio interlocutore: anche dalla voce si capiva la propensione al delitto di quella persona. Io ero molto giovane, e per condurre al meglio quei colloqui decisi di studiarli. Oltre alla registrazione che veniva consegnata alle forze dell’ordine, ne tenevo una copia per me. Riascoltavo le telefonate per capire i miei errori, dove ero stata in gamba e per conoscere meglio la persona che stava dall’altra parte. Le prime telefonate furono molto difficili ma poi, grazie a questo “allenamento”, le cose andarono meglio.

Il pagamento avvenne il 21 dicembre di quel 1983 e da quel momento iniziò la parte più difficile. Tramite dei nostri amici, i rapitori ci fecero pervenire l’avviso che per loro sarebbe stato più semplice uccidere gli ostaggi che liberarli, soprattutto ora che avevano anche i soldi in mano. Ciò mi indusse a chiedere ai Carabinieri, a cui va riconosciuto grande professionalità ed attenzione nei nostri confronti durante tutti quei giorni, di non intervenire in alcun modo. I rischi erano troppo grandi.

Finalmente arrivò la sera del 24 dicembre, quando mia madre e mio fratello furono liberati a circa un chilometro dalla Tenuta, 36 giorni dopo il rapimento».

L’intera famiglia poté così tornare alla vita “normale”: «Mio fratello in quello stesso anno conseguì la maturità, per poi iscriversi all’università e divenire notaio. L’orecchio gli fu ricostruito grazie a quattro operazioni a cui si sottopose negli Stati Uniti d’America. Mia madre tornò alle sue occupazioni, sia all’interno che al di fuori dell’azienda. Se devo essere sincera, non ho mai notato dei cambiamenti nel loro modo di essere. Forse un sostegno psicologico gli sarebbe stato d’aiuto, ma scelsero di non avvalersene. Anche mio padre tornò alle sue occupazioni. Quell’anno il suo 69° compleanno, il 2 dicembre, cadde proprio nei giorni del sequestro. Quella notte non poté impedire il rapimento, ma fu comunque formidabile nel liberarsi da solo, accorrere in aiuto delle altre persone coinvolte ed avvisare le forze dell’ordine. Per quanto riguarda me, sentivo il bisogno di cambiare aria e vita. Nella mia casa di Roma erano arrivate le telefonate dei rapitori, avevo bisogno di allontanarmene: mi sposai ed andai a vivere a Milano. Nonostante la brutta esperienza vissuta qui, mio padre e mia madre decisero di non vendere la Tenuta, anche perché vi erano molto affezionati. Quando decisi di rilevarla, molti anni dopo, non la ricollegai, così come accade tutt’ora, a quell’evento. Forse perché lo vissi da lontano. Ma comunque sia io che mia sorella Francesca abbiamo deciso di continuare ad occuparci dell’azienda».

I colpevoli del rapimento furono arrestati tra la fine del 1983 e l’inizio del 1984, con il processo a loro carico che inflisse condanne fino a 30 anni di carcere: «Io non andai a testimoniare. In fondo, tutte le mie conversazioni con i rapitori erano registrate e a disposizione delle autorità giudiziarie. Inoltre, all’epoca del processo ero incinta, e sentivo il bisogno di distaccarmi da quella vicenda. In pochi si sono preoccupati di come avessi vissuto io quei 36 giorni. È giusto e comprensibile che la vicinanza sia stata mostrata a mia madre e a mio fratello, le vittime di quella terribile vicenda. Ma per me non fu affatto facile: stavo pur sempre trattando per la vita di mia madre e di mio fratello. Tornando al processo, pur dichiarandosi appartenenti al Partito Armato Sardo che ci imputava di essere dei capitalisti, e dunque chiaramente schierati a livello politico, i rapitori furono arrestati mentre spendevano i nostri soldi in località di villeggiatura. Di politico non c’era assolutamente nulla in quella vicenda.

Pochi anni fa sono decorsi i termini per la scarcerazione, ed uno di loro ha scritto una lettera a mio fratello. Claudio Cadinu, consapevole che stava per ottenere una misura cautelare più leggera, scrisse a Giorgio di sperare che questo avvenimento non “offendesse la sua sensibilità”. Un atto di pentimento, o di chissà cos’altro, che però era difficile da aspettarsi da una persona che era stata capace di compiere atti di tale crudeltà».

 

di Massimo Pacetti

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